Il serbo della Goeba

Roberto Beccantini21 gennaio 2024

Dalle «scimmie» a Maignan (Udine, tu quoque?), una gran brutta storia, al secondo 3-0 consecutivo della Juventus., una gran piccola storia. Dopo il Sassuolo, a Lecce, là dove i salentini sono tutto tranne che barocchi. Il sorpasso «virtuale», dal momento che l’Inter araba ha una partita in meno, eccita il loggione. Se mai, si allunga la striscia: 13 vittorie, 3 pareggi. E Vlahovic non smette più: due a Consigli, due a Falcone, il secondo «rubato» letteralmente a McKennie. Non più la schiena alla porta: il pugnale, finalmente.

Mancavano le «frecce», Banda e Chiesa, più Rafa e Rabiot. D’Aversa l’aveva messa sui duelli, Allegri sui campanili per saltare il centrocampo, cosa che però escludeva le pantofole di Yildiz dalla moquette del «giuoco». Un avvio pimpante di Vlahovic, una «parata» di Krstovic (il centravanti) su incornata del texano e, per il resto, un gran ribollir di tackle con Miretti che si smarriva nella giungla e Locatelli costretto a inventarsi «Lavolpiano» tra Bremer e Gatti pur di smistare avanzi di pallone. Il popolo, che certe sfumature non le capisce, sbadigliava.

Tiri, una miseria. Viveva, il Lecce, sulle volate di Almqvist, gli spigoli di Pongracic e il mestiere di Ramadani. Si sa: se deve imporre la manovra, la Juventus sbuffa. Ma nella ripresa, verso il 50′, Allegri richiamava Miretti, inseriva Weah e spostava Cambiaso in mezzo. La trama s’impennava. Cresceva, la Vecchia, e il Lecce ne pagava il fio: sinistro di controbalzo di Vlahovic su spunto di Yildiz e cross di Cambiaso. Zampata del «nove» sul gesso della linea (da una incornata di McKennie e una parabola di Kostic); smash aereo di Bremer (da una punizione di Iling-Junior). E Szczesny? Primo e unico tuffo al 93’, su Sansone.

La Juventus non ha paura di «provincializzarsi», se è il caso. E’ solita e solida. E’ un’amazzone, più che una olgettina. Sarebbe piaciuta a Leo Longanesi: «Il tempo di trascorrere il tempo, è l’arte di non inseguirlo».

La notte porta Consigli

Roberto Beccantini16 gennaio 2024

All’andata, il 23 settembre, vinse il Sassuolo complici i suicidi di Szczesny e Gatti: 4-2. Al ritorno, il 16 gennaio, ha vinto la Juventus complice Consigli: 3-0. Poco reattivo sui sinistri di Vlahovic, entrambi da fuori area, il secondo su punizione; un po’ così, agli sgoccioli, sul destro sghembo di Chiesa. Il polacco, che al Mapei ne aveva combinate più di Carlo in Francia (ben oltre il Consigli dello Stadium), si è invece riscattato: bravo sulla sventola di Laurienté, molto bravo sulla lecca di Berardi (poi sostituito: por qué?), pizzicata da Danilo.

Il senso della ordalia riguarda lo scarto (tre reti, addirittura: evviva il largo muso) e l’ascesa di Vlahovic. Sta segnando a ritmi guardioleschi. Testa, piedi: riecco il centravanti che fa crescere coloro che lo aiutano a crescere. Allegri, in estate, si era preso una cotta per Lukaku. Il belga, quando si dice il destino, ne rifiutò la corte. E il matrimonio saltò. Per fortuna.

Con il serbo c’era Yildiz: ogni volta che «punta» l’uomo, dà spesso l’idea di creare qualcosa. E’ strana, la squadra di Dionisi: l’unica, al netto delle undici sconfitte, ad aver battuto sia l’Inter (a San Siro, per giunta) sia Madama. La doppietta di Vlahovic ha orientato la sfida e, naturalmente, l’atteggiamento della Vecchia. Aggressiva, piacevole e generosa finché serviva e poi arruffona nelle uscite, spilorcia, attendista. La ripresa è stata di una noia moraviana, con gli ospiti a menare il torrone e la Juventus ad aspettarli sull’uscio, sbadigliante .

Altro capitolo, Chiesa. Sponda per Weah e rete a parte, ancora panchinaro. Di sicuro, una scossa; ma pure un progetto a metà, un mezzo «regalo» alla concorrenza. A meno che non sia il ginocchio a suggerire dosaggi tanto spartani. Ci sarebbe sempre il 4-3-3: Max preferisce il 3-5-2 che gli ha dato, dalle streghe di Reggio Emilia, 12 vittorie e 3 pareggi. Ah, i risultati!

Ei mou

Roberto Beccantini16 gennaio 2024

Era nell’aria, ma così è una bomba, non un petardo. José Mourinho esonerato dalla famiglia Friedkin. Arrivederci Roma. Senza se e senza ma. I risultati, naturalmente: la sconfitta di San Siro con il Milan, il k.o. nel derby di coppa, un nono posto in classifica che non risponde alle attese (e neppure al sesto della mia griglia estiva). La sindrome della terza stagione.

A 60 anni, l’ex Special ha scoperto di essere sempre più prigioniero dei giocatori (del loro livello tecnico, intendo) e della sua filosofia, sua di lui, che dai tempi delle manette e del triplete interista si è ridotta via via a una caccia rozza e spietata agli arbitri (pre-ventiva con Marcenaro, post-ventiva con Orsato), cosa che ha acceso e propagato alibi che hanno finito per consumare il poco gioco che c’era e, soprattutto, i nervi dei fedelissimi (l’invasato Mancini in testa).

Era sinceramente brutta, la sua Roma, appesa alla corda dei muscoli fragili di Dybala e alla stazza amletica di Lukaku. Eppure il popolo continuava a coccolarlo. Sold out su sold out per ringraziarlo della Conference, della finale di Europa League, di monologhi che cementavano l’orgoglio ferito del Romanismo. I tifosi. Non i padroni. Loro no. Distanti, assenti, ambigui. Americani attenti all’immagine, visto che altro non rimaneva.

E fra gli stessi curvaioli, qualcuno cominciava a scivolare fuori, triste, malinconico, come se si sentisse più traditore che tradito. Non lontano dalle ultime versioni di Chelsea (1 Premier, 1 Coppa di Lega), Manchester United (1 Europa League, Coppa di Lega) e Tottenham, Mou mi ha ricordato il Marziano di Ennio Flaiano. Al suo atterraggio a Villa Borghese, non lo si poteva avvicinare, tanta era la ressa di mamme con pargoli, nonni curiosi e aspiranti servi. Piano piano, però, ecco i primi «embé?», i primi «e allora?». E’ il destino dei Grandi: o tutto o niente.